Disturbi alimentari e DNA

Esiste una base anatomo-fisiologica per cui una persona possa essere più predisposta di un’altra ad incorrere in un disturbo del comportamento alimentare?

I numerosi progressi in campo medico e delle neuroscienze non sono in grado di rispondere in modo diretto a questa domanda.

Oggi si ritiene che i centri dell’alimentazione, situati a livello dell’ipotalamo, facciano parte di un complesso di interazioni neuroregolatrici, come il sistema della sazietà a livello gastrico e pancreatico e la rete neurale encefalica, che influenza l’assunzione del cibo e che il comportamento alimentare sia frutto di un’interazione fra lo stato fisiologico dell’organismo e i condizionamenti esterni (v. testo Psicologia di Umberto Galimberti, edito da Garzanti).

In parole più semplici questo significa che, se anche ci fossero predisposizioni genetiche per cui una persona fosse più a rischio di un’altra, cosa di cui oggi non possiamo affermare nulla più di quanto già detto sopra, la predisposizione genetica in sé e/o lo stato fisiologico del momento, non sembrano essere sufficienti ad indurre un disturbo del comportamento alimentare. Ci dev’essere, perché ciò avvenga, un’interazione costante e di significativa durata, tra la persona e il mondo esterno e ciò che essa comporta.

Conclusione: poiché un disturbo del comportamento alimentare si presenta come un insieme di variabili molto complesse, cioè a dire come un comportamento complesso, possiamo affermare, con una certa sicurezza, che esso non è né ereditabile, né trasmissibile soltanto attraverso il patrimonio genetico.

Questo non significa che, in realtà, non possa essere trasmesso dal genitore alla prole. Esso può essere trasferito alla generazione successiva, come può succedere per tutti i comportamenti complessi, in una modalità che possiamo genericamente definire induttiva, cioè in modo tale per cui i figli, respirando in famiglia una certa “aria” e un certo “clima familiare” ne apprendono, a loro stessa insaputa, dinamiche comportamentali e meccanismi stereotipati, attraverso l’imitazione, l’immedesimazione, la “copiatura”,  imparando, così, a muoversi nel mondo in un certo modo, piuttosto che in un altro.

A volte la prima apparizione in famiglia di un disturbo del comportamento alimentare non è altro che la trasposizione e la rappresentazione, attraverso una forma diversa, di modalità tipicamente familiari e apprese e, benché di non facile svelamento, in quanto irriconoscibili all’apparenza, assolutamente “in linea” con il funzionamento familiare. Ciò è spesso molto difficile da indagare, da scoprire e da far emergere, perché, detto funzionamento familiare, si presenta spesso “funzionale” per taluni membri familiari e assolutamente “disfunzionale” per altri.

Facciamo un esempio: se coloro che sono in totale sintonia con le proprie modalità comportamentali, sono ad esempio i genitori, essi avranno difficoltà a comprendere come mai una figlia o un figlio non riescano a condividerle. Se poi, come spesso succede, i genitori sono strutturati in modo rigido, sostenendo il fatto che il proprio modus operandi  li ha condotti nella vita a raggiungere obiettivi e/o successi, mancherà ad essi la necessaria elasticità per cercare di comprendere la patologia della propria figlia o figlio. Situazioni di questo tipo, molto frequenti, non aiutano né i portatori di una patologia legata all’alimentazione, né i terapeuti che se ne occupano.